“Mi fa anche un po’ ridere che mi fanno tutte ‘ste
interviste!” si schermisce Andrej Longo quando gli chiediamo
la disponibilità a quello che per lui sarà l’ennesimo
fuoco di fila dialettico nel giro di pochi giorni. “Non è che
sono diventato una specie di oracolo?”.
Lui stesso ha qualche difficoltà (“Forse è scritto
meglio di altri, andrà più in profondità ai
personaggi, all’anima… ”) a spiegare su due
piedi il successo di un libro – “Dieci”, pubblicato
da Adelphi – che era diventato un caso letterario già prima
che la giuria popolare del Premio Bergamo lo incoronasse, con
buon margine, vincitore dell’edizione 2008. A gennaio,
il successo nel più antico premio letterario italiano,
il “Bagutta”; poi il “Selezione Bancarella”,
con l’inclusione nella sestina che a metà luglio
si disputerà l’ambito “premio dei librai”.
Prima e dopo, tante recensioni – anche a firma di penne
illustri come Corrado Augias ed Ermanno Paccagnini – e
una bella collezione di interviste lette sui giornali e ascoltate
alla radio. Tutte focalizzate – non senza divagazioni – su
queste dieci storie napoletane e sui loro protagonisti, sulle
loro vite a volte estreme e a volte “normali”, sempre
in bilico fra ansia di riscatto e rassegnazione a un ordinario
degrado.
Ma ecco che una spiegazione plausibile arriva: “Mi sembra
che oggi – a differenza di qualche anno fa – i lettori
siano più attratti dai contesti che dalla psicologia,
dai turbamenti del cuore. O meglio: cercano storie che hanno
sì uno spessore umano, ma preferibilmente ambientate nei
luoghi verso cui più si dirige la curiosità diffusa.
Penso per esempio alla Sardegna di Milena Agus o di Salvatore
Niffoi. O ai libri di Andrea Camilleri o di Gianrico Carofiglio,
che effettivamente ti fanno conoscere meglio alcune realtà del
nostro Paese”.
Corrado Augias (“Il Venerdì” di Repubblica, 30 novembre
2007) ha scritto che i racconti di “Dieci” “dicono su Napoli
molto di più di un’inchiesta”. Che rapporto vede fra cronaca
e letteratura?
“Per cronaca intendo semplicemente la realtà, i
fatti che accadono intorno a noi. Ma la cronaca può essere
senza significato se non si conosce il contesto nel quale gli
avvenimenti si verificano. Tempo fa i giornali mostravano grande
stupore per il fatto che i bambini delle periferie di Napoli
avevano scritto nei loro temi di “sentirsi protetti dalla
camorra” e cose del genere. Uno che vive da quelle parti
sa che l’unico fatto davvero sorprendente è che
finora nessuno se ne sia seriamente occupato.
E’ vero: come scrive Augias, un racconto riassume in poche
pagine quello che un cronista impiegherebbe molto tempo a raccontare.
Ma forse quando uno parte, come me, da un fatto di cronaca per
scrivere un racconto è come se facesse già un’inchiesta
per i fatti suoi, e poi la trasformasse in qualcosa che non è più un’inchiesta
ma è narrativa”.
Allora le sarebbe piaciuto fare il giornalista!
“Forse un po’ lo faccio già, anche se poi
non scrivo su un giornale! Di sicuro mi avrebbe incuriosito:
però fare proprio il cronista, non il recensore che si
occupa di libri o di arte. A me interessa parlare con la gente,
vedere dove sono avvenuti i fatti di cronaca, capire come sono
accaduti.... Quando mi è possibile seguo amici giornalisti,
o amici avvocati, che fanno questo lavoro.
Del giornale mi ha sempre attratto molto – pur senza saperne
quasi nulla! – pure la pagina economica. Penso anche che
conoscere un po’ di economia (e di tecnologie) possa aprire
a uno scrittore delle finestre narrative finora poco esplorate.
Per quello che mi risulta, l’unico che ci ha provato, almeno
da noi – in America i tentativi sono più numerosi! – è Hans
Magnus Enzensberger. Senza precise conoscenze tecniche, però,
meglio rimanere ancorati alla cronaca”.
C’è qualcosa che accomuna i dieci racconti, un
sentimento più generale che va al di là delle reazioni
forti, ma molto diverse (la rabbia, il dolore, il rimpianto,
la pietà, ecc.) che accompagnano ogni storia?
“Penso che ogni racconto abbia una sua cifra emotiva e
si soffermi su un aspetto dell’anima, senza però particolari
legami tra l’una e l’altra situazione. La caratteristica
di tutti i personaggi del libro – e forse anche di questa
città – è di girare come mosche impazzite
dentro un bicchiere, in cerca di una via d’uscita che forse
non c’è: almeno lì, in quel mondo e con quella
vita. Secondo me è una caratteristica tipica di tutto
l’Occidente: queste macchine, questi traffici, questo andare
avanti e indietro, lavorare, correre, fare… come se tutto
girasse attorno a una vita che non c’è. Dalla periferia
di Napoli tutto questo si vede, però, in maniera particolarmente
chiara.
Così ho voluto raccontare questi personaggi, uno per uno,
anzitutto perché mi pareva che fossero stati poco raccontati.
Rispetto a tutto il resto del genere umano, mi sembravano anzi
più meritevoli di attenzione e amore proprio perché più degli
altri erano stati “dimenticati”. Per quanto la politica
e i giornali a volte parlino di loro, non vedo nessun desiderio
autentico di capirli, o anche solo di pensare a come migliorare
le loro condizioni. E’ come se facessero parte di un altro
mondo, di un paese lontano, non dell’Italia. Mi sono dato
una spiegazione: siccome ci vorrebbero decenni per cambiare questa
situazione, e i politici hanno invece bisogno di effetti immediati,
non è conveniente affrontare il problema e nemmeno parlarne”.
Nell’intervista rilasciata a Maria Serena Palieri ("L'Unità",
9 novembre 2007) lei spiega che “ciò che ci caratterizza
come esseri umani è la possibilità di scegliere”,
ma che “a Napoli questa libertà non c’è”.
Cosa ce ne priva?
“Per essere davvero tale, una scelta si deve poter compiere
tra due cose che si equivalgono, o almeno si possono paragonare.
E per avere la possibilità di scegliere devi conoscere
queste due cose, vederle, confrontarle, e poi dire per esempio: “voglio
fare il killer o lo spacciatore!” oppure “voglio
lavorare in maniera onesta!”.
Talvolta questa alternativa non c’è. O meglio: anche
in pratica esiste la possibilità di una vita onesta e
tranquilla, ma poi ti accorgi che in certi contesti quest’opzione
non è valutabile in maniera precisa perché le pressioni
ambientali ti impediscono perfino di prenderla in considerazione.
In ambienti molto degradati le persone che cercano di vivere
nella legalità vanno incontro ad ostacoli, difficoltà,
problemi, e finiscono con l’essere ridicolizzate dal contesto
sociale, soprattutto tra i giovani. E quindi si può anche
dire che questa possibilità di scegliere non esiste proprio
perché non esiste la scelta”.
Per Napoli è un problema storico….
“Anche solo 20 o 30 anni fa la camorra occupava nella società napoletana
un posto più marginale di quello che riveste oggi, e non
era circondata dalla considerazione e dal rispetto di cui gode
adesso. Oggi la prepotenza, l’esibizione della ricchezza,
il tentativo di scavalcare gli altri sono atteggiamenti palesi,
ostentati. E’ chiaro che, in queste condizioni, si fa quasi
improponibile la scelta fra questo tipo di vita – “rilanciato” anche
dalla televisione – e un modello diverso, che diventa via
via sempre meno attraente, credibile e presente nell’immaginario
delle persone.
I protagonisti dei miei racconti sono tutti immersi, ciascuno
a modo suo, in questo contesto degradato. Quasi tutti però,
a un certo punto della loro vicenda, acquistano una qualche forma
di consapevolezza di quello che vivono: e proprio in questa consapevolezza è concentrata,
secondo me, la speranza di questo libro e del futuro. E’ il
primo passo anche nella vita: solo sei consapevole del tuo problema
puoi affrontarlo e risolverlo, e quindi operare delle scelte.
Però la vita è complicata, non lineare….
E così, nel primo racconto, noi non sappiamo ancora se
Papilù andrà all’appuntamento col suo “protettore” oppure
no. Così come, nell’ultimo, non sappiamo se Reibàn
sparerà: perché a un certo punto il racconto si
interrompe e tutto resta come sospeso. Magari il lettore si fa
l’idea che le cose andranno in un certo modo: però – diciamolo – come
finirà non è ancora del tutto sicuro!”.
Molte recensioni parlano di “Dieci” come di un
libro “ambientato all'inferno”, dove i sentimenti
e la voglia di riscatto dei personaggi non trovano sbocchi e
l’energia vitale appare soffocata e compressa. Ma cos’è che
fa di un luogo un inferno?
“Partiamo da un dato ambientale, che possiamo osservare
specialmente negli adolescenti: e cioè che “sono
finti”, in sostanza fingono di essere altre persone. In
certi contesti anche crescere lentamente – o almeno rispettare
le tappe della crescita - è un lusso: e allora si bruciano
le tappe. Ancora ragazzi, devono quindi dare l’impressione
di essere già uomini, cosa che per loro vuol dire “essere
duri”, non provare sentimenti; e le ragazze devono figurare
di essere già donne a tredici, quattordici anni. C’è quindi
una sorta di mascheramento che impedisce ai sentimenti, alle
emozioni e alla realtà delle cose di venire alla luce.
E’ questa finzione “obbligatoria” a diventare,
molto velocemente, la realtà.
Attraverso i miei personaggi ho cercato di raccontare soprattutto
l’assenza di amore che li circonda. Vediamo allora dei
genitori che – presi dalla droga, impegnati nello spaccio
e in altre attività illegali, preoccupati di procurarsi
denaro in qualsiasi maniera – mostrano una mancanza di
attenzione nei confronti dei figli che, in un modo o nell’altro,
si rivela anche una mancanza di amore. E tuttavia questi adolescenti,
quando incontrano qualcuno che – anche solo per un attimo – mostra
loro una piccola luce, rimangono colpiti, affascinati, attoniti.
Mi sembra emblematico tutto il settimo racconto, costruito sulla
vicenda del giovane balordo che incontra lo sguardo della sua
vittima; o il sesto, quando vediamo la ragazzina entrare in chiesa
prima di abortire.... Basta un minimo di attenzione e subito
tocchi una corda scoperta, si produce un’emozione che almeno
per un attimo risveglia, smuove qualcosa”.
“Dieci” si legge in poche ore. Ma fa riflettere
molto più a lungo”: finisce così la bella
recensione di Lucia Ferrajoli (“L’Eco di Bergamo” del
17 aprile 2008). Qual è il segreto della “persistenza” del
libro nella memoria del lettore?
Niente trucchi e nessun “segreto”! Penso che una
parte della spiegazione stia nella “universalità” delle
storie: sono ambientate a Napoli ma potrebbero – come domande,
come inquietudini, come “anima” – essere nate
ovunque. Il resto si deve ai personaggi, così come accade
con qualunque libro o film che rimane impresso nella memoria.
Se i personaggi sono davvero tali – con la loro sostanza,
la loro complessità, le loro contraddizioni – sono
loro che rimangono e si “portano dietro” tutto il
resto.
“La morte di Ivan Il’i?” – il famoso
racconto di Tolstoj – in fondo “è” quel
personaggio. Sono i personaggi a restare, perché essi
stessi sono la porta che ti affaccia su un altro mondo e anche
la chiave per entrarci. Succede così anche per un film:
i personaggi sono il passepartout emotivo per arrivare alla comprensione
dei significati più profondi. Non credo si possano fabbricare
a tavolino; o meglio: si possono anche “costruire”,
ma prima li devi avere, li devi sentire, li devi conoscere”.
Oggi Napoli può contare su molti bravi scrittori: da
Diego De Silva a Giuseppe Ferrandino a Valeria Parrella (e adesso
ad Andrej Longo!), per citare solo quelli passati al Premio Bergamo
di recente. Possiamo parlare di una "scuola"?
“Io penso che non esista una vera e propria “scuola
napoletana”. Forse alcuni scrittori sono più legati
tra loro a livello personale e artistico, affrontano tematiche
simili, fanno parte di mondi che si incrociano: ma finisce qui.
Secondo me questo proliferare di autori napoletani dipende soprattutto
dalle peculiarità della realtà in cui tutti noi
scrittori viviamo; e dal fatto che questa realtà è,
se possibile, arricchita dall’uso di una vera e propria “lingua
alternativa” molto duttile e stimolante.
A essere “particolare” è poi la stessa città di
Napoli. E’ costruita in una maniera tale per cui le varie
zone non sono separate nettamente: come accade invece a Milano
o a Roma, fatte a cerchi concentrici, dove più ti allontani
dal centro e più finisci in periferia. Invece a Napoli
le strade “bene” sono incrociate con i quartieri
popolari; due fermate e la metropolitana ti porta in mondi completamente
diversi, che restano però sempre – anche culturalmente – sempre
in contatto. In questo modo puoi sentire di più la città,
la “odori” di più: ed essendo così “dentro” la
realtà, sei anche stimolato a raccontarla”.
Allora questo è un momento particolarmente favorevole
per uno scrittore napoletano?
“Forse sì: adesso a Napoli è un po’ come
nel dopoguerra, quando in Italia si facevano un sacco di film
interessanti proprio perché si era in una realtà appena
uscita dalla guerra che aveva molto da raccontare. Il momento
attuale, perciò, è favorevole per un autore napoletano
proprio perché in città si avverte un degrado crescente,
una maggiore disperazione. Quando tutto va bene, hai meno voglia
di scrivere: adesso invece senti il bisogno di parlarne, di fare
qualcosa e – se sei uno scrittore – di raccontare”.
A uno scrittore si vorrebbe chiedere anche qualche consiglio
di lettura…. Può indicarci tre libri che per lei
sono stati importanti e che suggerirebbe senza esitare?
“Di libri è talmente tanto pieno il mondo, ne hai
letti talmente tanti – a centinaia, a migliaia… -
che rischi l’arbitrio, e soprattutto di essere banale.
Però, accettando il rischio, ecco alcuni testi meno conosciuti
che in momenti diversi della vita mi hanno colpito e stimolato.
Il primo è “Preghiera per Chernobyl” di Svetlana
Aleksievi? (edizioni e/o), un libro di interviste e documenti
vent’anni dopo la tragedia della centrale nucleare. E’ un
testo drammatico, sconvolgente, che mi è rimasto impresso
non solo per l’asprezza, ma anche per il rispetto con cui
la materia viene trattata e per il modo di accostarsi a una realtà che
ci riguarda tutti. Il secondo è “La fine del Titanic”,
un poemetto di Hans Magnus Enzensberger (Einaudi). Mi ha incuriosito
soprattutto per la capacità dell’autore di prendere
un fatto e di farne metafora di infinite altre cose, oltre che
per l’esplorazione delle tante possibilità tecniche
di usare la scrittura. Leggendolo, uno ha la sensazione che esistono
sempre altri modi per raccontare! L’ultimo – andiamo
più sul classico! – è “Di cosa parliamo
quando parliamo d’amore” di Raymond Carver (minimum
fax). Perché questo famoso libro di racconti? Perché Carver è stato
forse l’autore che mi ha formato di più per quanto
riguarda il modo di raccontare la realtà”.
Ringraziamo Andrej Longo per il tempo dedicatoci, ma lui ci spiazza
di nuovo: “Vabbè, le interviste le faccio un po’ come
se giocassi… tutto sommato mi diverte! Che cos’è in
fondo un’intervista se non un gioco di società?”.
(intervista a cura di Alberto Pesenti Palvis)